Carissima Veronica. Ci provo a scrivere la mia storia, ma è difficile. Soprattutto mi pesa la frustrazione di non saper esprimere a parole la disperazione che ho dentro. Pesa anche il fatto di aver saputo solamente 4 mesi fa il nome della “malattia misteriosa” che mi affliggeva da ben 5 anni. Credo di essere ancora sotto shock dalla notizia. Cerco di condurre una vita “normale”, per quanto i dolori me lo consentano, e di comportarmi “normalmente” con amici e familiari. Ma io mi sento diversa. Io SO di non essere più la stessa persona che ero fino a 4 mesi fa, e che la mia vita sarà sempre divisa da una linea immaginaria, un “prima” e un “dopo” la diagnosi. L’ho presa male. Eppure non vedevo l’ora di scoprire che cavolo di malattia avessi, il motivo di tutti quei dolori laceranti. Ero felice che finalmente un medico gastroenterologo mi avesse creduta, rifiutandosi di fermarsi alla prima diagnosi, fatta da tanti suoi colleghi prima di lui: sindrome del colon irritabile. Dopo anni e anni in cui l’unica risposta al mio male sembrava essere la psichiatria (oltre a soffrire come un cane venivo anche presa per matta), avevo finalmente la mia diagnosi certa. E tutti intorno a me in un sol coro sembrano dire “ooooh finalmente, così ora GUARIRAI”. Tutti a battere il piedino a terra, impazienti, compreso il datore di lavoro. “Ora ti curi e guarisci (e la smetti di lamentarti e di rompere)”. Eh no. Mi dispiace, ma non posso fare nulla per compiacervi, non posso guarire a comando. Le malattie croniche esistono, e io me ne sono beccata una. Leggo l’incredulità negli occhi degli amici e del fidanzato, la disperazione in quelli di mia madre. Vivrò per sempre così? Sì. Perché sono troppo giovane per operarmi (ho 38 anni e corro il serio rischio di una isterectomia). Perché non ho figli. Perché c’è il rischio di recidiva. Perché devo aspettare fiduciosa che la menopausa arrivi, e sperare che arrivi presto. Oppure cercare una gravidanza, anche se questo comporterebbe perdere il posto (fisso) di lavoro.
Cerco di tamponare il dolore con la dieta antinfiammatoria. Mi privo del piacere di un bicchiere di vino con gli amici, di un gelato, di un caffè. Vedo che ciò non basta, ed elimino anche il glutine. Il lattosio. La carne rossa. Continuo però a fumare, non riesco a smettere e forse è la mia personale forma di ribellione contro questo regime salutista forzato. Prendo integratori di Omega 3 e magnesio, pregando Iddio o chi per lui che tutto ciò faccia diminuire il dolore.
Gli “altri” mi danno fastidio. Lo so, è orribile e non dovrei dirlo, ma è così. Mi da fastidio chiunque alla mia età viva una vita “normale”, la stessa che io non posso vivere. Chiunque faccia rinunce alimentari semplicemente perché si vede grassa. Chiunque abbia un bambino in braccio, magari il secondo figlio, e si lamenta perché è stanca. Mi danno fastidio le persone felici. Ora Veronica ti chiedo: quando passerà? Quanto ci si mette ad accettare tutto questo dolore? Si arriva mai ad accettarlo davvero? Ci si abitua ad essere “diverse” dal resto del mondo? So che per la mia esperienza esistenziale questa malattia è anche un arricchimento, la possibilità di godere delle cose belle e dei momenti di pace che gli “altri” ignorano. La malattia ci conferisce un modo diverso di vedere le cose, anche le più piccole, che a volte sfiora la poesia. Il cinismo non fa per noi. Non ce lo possiamo permettere.
Grazie per quello che fai.
Floriana
Sai Floriana a proposito di fastidio … mi sono ritrovata a riflettere l’altro giorno su come non sia scontato che accettazione e condivisione portino necessariamente a star meglio.
Io credo che si debba fare un grande lavoro introspettivo, conoscere bene il nostro carattere e possibilmente partire da una condizione di equilibrio per riuscire poi ad arrivare, seguendo un determinato percorso, all’accettazione con una certa “serenità” … passami il termine.
Da come ti sei espressa credo che non avrai problemi a “venirne fuori”.
Forse sono concetti astratti e per entrare nello specifico ti faccio qualche esempio.
Mi capita quasi ogni giorno di leggere commenti su Facebook di donne che accusano forti dolori a causa dell’endometriosi.
I loro profili sono dedicati totalmente all’endometriosi.
Denunce di incomprensione, fotografie shock che “ci rappresentano” nostro malgrado nelle quali non trovo nessuna identificazione.
Cicatrici, sangue.
Mi sembra a volte che l’endometriosi sia diventata un pretesto per parlare, emergere, diventare protagoniste.
Si fa a gara a chi sta peggio, a chi ha subito il maggior numero di interventi, inventariando cisti e noduli, descrivendo il proprio ciclo mestruale al mondo intero.
Mi picerebbe che esistesse ancora un minimo senso del pudore, una delicatezza dei termini, un rispetto verso chi soffre in modo invalidante o semplicemente verso chi è tra i nostri contatti, magari anche degli uomini e si vedono descritto il nostro ciclo mestruale sulla loro bacheca.
In tutto questo modo di comportarsi non credo ci sia una reale “accettazione”.
Trasformare una malattia in un gioco o in un passatempo non è accettazione. Accettazione per quel che mi riguarda vuol dire prendere coscienza della propria condizione e cominciare piano piano a guardare un po’ più lontano, arginare la propria endometriosi nel proprio “meridione” come diceva Nieves in Condividendo.
Anche io ho passato un anno buono sempre su internet in cerca di informazioni sulla malattia, anche io cercavo in modo quasi morboso di capire, di trovare risposte, di confrontarmi il più possibile, con la testa perennemente dentro alla mia pancia, ma ad un certo punto DEVE arrivare il momento in cui capisci di essere un po’ più tranquilla, di avere un po’ più risposte e piano piano si deve tornare alla vita. Ovviamente compatibilmente con il manifestarsi della malattia. So anche io che ci sono “periodi acuti” in cui purtroppo non possiamo metterla da parte ed è lei l’assoluta protagonista delle nostre giornate.
Quindi, l’ho presa alla larga, ma per rispondere alle tue domande, SI prima o poi si arriva ad accettare, non c’è un tempo standard ma ti assicuro che ci si arriva.
L’Associazione APE ha una filosofia molto positiva e per questo mi piace. Ti prende per mano e ti sostiene in questo cammino. Gli incontri con la psicologa sono “preziosi” strumenti per arrivare in breve tempo a camminare con le proprie gambe. Il gruppo storico di Reggio Emilia, non esiste quasi più, perché tutte le donne che ne facevano parte e che hanno costituito il gruppo ora non sentono neanche più il bisogno di riunirsi periodicamente per parlare di endometriosi.
Questa è accettazione. Così deve essere. Trovare l’aiuto necessario per tornare a galla e NON mettere la centro della propria vita l’endometriosi e farle girare tutto attorno.
Non vorrei che queste mie parole sembrassero “leggere o insensibili” verso chi da anni sta soffrendo le pene dell’inferno. Ho specificato e lo evidenzio nuovamente che purtroppo ci sono casi così gravi che non danno tregua ad una donna e che una serie di errori medici e diagnosi sbagliate hanno rovinato per sempre la loro salute. Ma anche in questo caso deve essere fatto uno sforzo per arrivare a rendere la propria esistenza almeno decente, anche con l’aiuto come dici tu dell’apprezzamento delle “ piccole cose” al limite della poesia.
Se non hai letto Condividendo vorrei regalartelo … credo che ci siano diverse frasi degne di riflessioni.
Grazie per avermi dato l’opportunità di esprimere un mio pensiero rispondendoti.
Ciao
Vero